
Il Mondo intervista Jesús Alemán, ex prigioniero politico italo venezuelano, esiliato in Spagna
MARINELLYS TREMAMUNNO / IL MONDO
Domenica 28 luglio i venezuelani sono chiamati a votare ad elezioni presidenziali che non saranno né giuste né trasparenti. L’attuale presidente, Nicolás Maduro, governa dal 2013 e intende ricandidarsi per un terzo mandato. Da ricordare che le precedenti elezioni del 2019 sono state segnate da un grande scandalo per frode e per questo non sono state riconosciute da quasi 60 paesi, inclusa l’Italia.
Per comprendere qual è il contesto in cui i venezuelani andranno alle urne, è importante sapere che gli ultimi dieci anni sono stati definiti come il “decennio oscuro di Nicolás Maduro” dall’ONG Provea (Programma Venezuelano di Educazione e Azione in Diritti Umani), un’organizzazione senza fini di lucro che difende i diritti umani in Venezuela da 35 anni.
Secondo Provea, tra il 2013 e il 2023, “43.003 persone sono state vittime di violazioni dell’integrità personale, che includono oltre 1.652 vittime di torture e 7.309 vittime di trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti”. Inoltre, 10.085 persone sono state giustiziate da agenti delle forze di polizia e militari controllati dal regime. Un vero scenario di terrore orchestrato da un dittatore che è anche accusato di narcotraffico dalla DEA, che ha offerto una ricompensa di 15 milioni di dollari a chi fornirà informazioni che ne consentano la cattura.
Tuttavia, domenica prossima i venezuelani potranno scegliere, tra 10 candidati, un presidente per un periodo di 6 anni: tra il dittatore, che appare 13 volte sulla scheda elettorale, e il candidato dell’unità dell’opposizione democratica, Edmundo González Urrutia, che appare in tre caselle. Il resto dei candidati è segnalato per avere qualche legame con il regime.
In questo contesto, María Corina Machado è la leader dell’opposizione venezuelana, avendo ottenuto oltre il 90% dei voti nelle primarie tenutesi nell’ottobre del 2023. Sebbene abbia condotto una campagna intensa in tutto il paese a sostegno di Edmundo González, non partecipa come candidata alle elezioni per decisione di Maduro, che ha impedito la sua iscrizione attraverso una sentenza del Tribunale Supremo di Giustizia.
Con i fatti accaduti nel 2019 e le gravi violazioni dei diritti umani denunciate non solo da Provea ma anche confermate da numerose organizzazioni internazionali, tra cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è chiaro che i venezuelani affronteranno una giornata elettorale segnata dall’incertezza e dalla tensione. Da un lato il dittatore con tutto il suo apparato di repressione e controllo assoluto delle istituzioni pubbliche, dall’altro un unico candidato che, secondo i sondaggi, rappresenta la speranza di un popolo stanco di soffrire e che non vuole vivere altri 6 anni sotto il mandato di Maduro.
Parlano le vittime della tortura
Quando mancano ore alle elezioni in Venezuela, le voci delle vittime delle torture del regime di Nicolás Maduro si sono fatte sentire in un evento organizzato da Forza Italia alla Camera dei deputati del Parlamento italiano. Martedì 23 luglio, alla presenza del sottosegretario per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale Maria Tripodi e della on. Annarita Patriarca, segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, sono state ascoltate le testimonianze sconvolgenti di Olga González, Víctor Navarro e Jesús Alemán. Olga ha visto morire suo marito, crivellato di colpi nel suo veicolo da funzionari del regime, per averla semplicemente pensata diversamente e per aver partecipato nel 2017. Víctor e Jesús invece sono due ex prigionieri politici sopravvissuti alle torture del Sebin (Servizio Bolivariano di Intelligence Nazionale), braccio repressivo del regime.
Il Mondo ha intervistato Jesús Alemán, un giovane di origine italiana che ha iniziato la sua lotta per un cambiamento in Venezuela attraverso il movimento studentesco, quando aveva solo 12 anni, e che nel 2018 è stato rapito e torturato dalla dittatura. Jesús è discendente di Rosario Laporta, un migrante italiano originario di Ficarazzi (Sicilia), che negli anni ’50 decise di imbarcarsi come clandestino su una nave che lo condusse fino al porto di La Guaira in Venezuela, “con una mano davanti e una dietro”, ma che dopo una vita di sacrifici e molto lavoro riuscì a crescere una famiglia e persino a diventare proprietario di tre segherie. Oggi Jesús è un migrante come suo nonno, ma con una storia di terrore sulle spalle che lo tiene esiliato in Spagna.

Perché sei in esilio in Spagna? Raccontaci cosa è successo nel 2018 in Venezuela…
«Sono fuori dal Venezuela perché la dittatura mi ha esiliato. Il 18 gennaio 2018 stavo uscendo di casa per portare un aiuto umanitario, che mi era arrivato dagli Stati Uniti, ad alcuni bambini e il Sebin mi ha sequestrato. Mi hanno messo nel veicolo delle granate, armi lunghe, munizioni, giubbotti antiproiettile, uniformi della Guardia Nazionale Bolivariana, dicendo che lo stavo trasportando. Lì inizia il mio cammino di tortura. Sono stato detenuto alla sede del Sebin della regione Los Llanos e ho subito diversi metodi di tortura».
Puoi raccontarci, se non è un problema per te, quali erano questi metodi di tortura?
«Mi coprivano la faccia con un sacco nero che mi tagliava il respiro, mettevano qualcosa intorno al mio corpo e mi colpivano con quello che presumo fosse una mazza, mi colpivano la testa, mi stordivano, mi bagnavano a terra e mi davano scariche elettriche sulla schiena e sul torace. Mi dicevano che la mia vita non valeva nulla, che ero solo, che non avrei avuto un salvatore; mi chiedevano di altri dirigenti politici, io non avevo nulla da dire, ma i miei silenzi si traducevano in colpi, colpi che hanno segnato la mia vita. Dopo le percosse li sentivo godere e anche le loro risate erano una tortura. Il resto del tempo mi lasciavano completamente isolato in una piccola stanza con una luce bianca, dove mi chiedevo costantemente quando sarebbero tornati, preferendo a volte che tornassero, perché sentivo che stavo impazzendo. Potevo solo pensare alla mia famiglia… Senza che la mia famiglia sapesse nulla del mio stato fisico, violando tutti i miei diritti, una settimana dopo mi hanno condotto in tribunale. Non solo mi accusavano di essere un attivista politico, ma mi incriminavano anche di reati che non avevo commesso, utilizzando tutto il sistema giudiziario, falsificando prove, false testimonianze e manovrando tutti i corpi di polizia a loro piacimento, perché così opera la dittatura in Venezuela. Le accuse contro di me erano di terrorismo, tradimento della patria e associazione a delinquere. Poi mi hanno condannato alla privazione della libertà e mi hanno trasferito in una prigione comune di nome “Campo Lindo”».

Com’è la vita in una prigione venezuelana?
«Nel carcere la vita è nelle mani di un PRAN, che è il leader dei delinquenti della prigione. Vivevamo in condizioni inumane e deplorevoli. Nella prigione c’erano più di 40 casi di tubercolosi. Quando ci permettevano di andare in bagno, tutte le necessità fisiologiche o igieniche venivano fatte attraverso un unico condotto che collassava e l’acqua ci arrivava fino alle caviglie. Mi sono ammalato di scabbia e funghi, sono arrivato a vedere persino i tendini delle dita del mio piede, ma mi hanno negato assistenza medica. Non dormivo perché a volte di notte potevano lanciare gas lacrimogeno e al mattino era normale che qualcuno fosse trovato accoltellato. Ho vissuto anche una rivolta, dove ho visto come hanno sparato in testa al mio custode. Sono rimasto per più di 20 ore sdraiato a terra in una linea di fuoco e l’unica cosa che chiedevo a Dio era che non esplodesse una granata vicino a me».
Come sei riuscito a uscire di prigione?
«Una mattina inaspettatamente mi hanno portato in tribunale e mi hanno fatto firmare delle misure cautelari di divieto di uscita dalla regione, divieto di uscita dal paese e obbligo di presentazione. Sono stato agli arresti domiciliari fino al 27 luglio 2018, quando hanno deciso di espatriarmi. Ma all’aeroporto mi hanno detto che mi ero già salvato in due occasioni e che una terza non la potevo raccontare, perché mi avrebbero ucciso facendomi a pezzi. Dal 28 luglio 2018 vivo in esilio, ma ciò non ha significato dimenticare il mio paese, come i milioni di venezuelani che sono stati costretti in un modo o nell’altro a lasciare il Venezuela».
Come ha cambiato la tua vita questa esperienza?
«Mi è stata rubata la vita. È un’esperienza che ti cambia; quando sono arrivato in Spagna mi svegliavo mentre correvo sonnambulo per le strade. Molte volte mi sono svegliato a una fermata dell’autobus. Adesso sono in libertà, ma è una libertà soggettiva, perché non posso tornare nella terra dove sono nato, dove c’è la mia famiglia, dove sono cresciuto, è difficile. Grazie a Dio, la Spagna ci ha aperto le porte, ci ha dato l’opportunità di crescere. Ho fatto di tutto, dal lavorare nelle costruzioni fino a difendere i diritti umani di coloro che sono ancora in Venezuela».
Cosa desideri per il Venezuela?
«Io sogno un paese pieno di opportunità, di unione. È un paese con molto odio e molto risentimento, perché è un paese devastato dal punto di vista sociale, economico e culturale. Questa situazione ha distrutto famiglie. Deve esserci un cambiamento e dobbiamo far parte di esso. Per la prima volta, nei sei anni in cui vivo in esilio, sento che presto torneremo a casa».
E cosa pensi che accadrà il 28 luglio?
«Il 28 luglio ci saranno milioni di venezuelani all’estero che non potranno esercitare il loro diritto di voto e anche più di 300 prigionieri politici che, pur essendo in Venezuela, non possono votare, perché così opera la dittatura di Nicolas Maduro. Ogni giorno che passa è un giorno in più di sofferenza per un popolo represso e ogni giorno che passa quello che ho vissuto lo vivono ancora più di 300 prigionieri politici, che non possiamo abbandonare. Non possiamo essere indifferenti. Questo 28 luglio si può aprire la porta della libertà per tutto il Venezuela, ma abbiamo bisogno che ci accompagnino in questo processo. Italia e Venezuela hanno legami storici, non ci lasciate soli, accompagnateci e siate parte di questa lotta e di questo sogno di vivere in un Venezuela libero».