Al di là delle svolte legali e degli atti simbolici, il regime mantiene ancora in ostaggio il popolo: non ci sono più spazi politici da conquistare democraticamente. Come previsto dal dittatore, il 5 gennaio si è insediato un nuovo Parlamento chavista, mentre la Corte Suprema (i cui membri sono stati scelti da Maduro) ha dichiarato nullo il documento approvato dal Parlamento di opposizione per prorogarne il suo mandato.
MARINELLYS TREMAMUNNO / LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA
È da un po’ di tempo che Juan Guaidó, presidente ad interim del Venezuela, non ripete più il mantra che lo ha reso popolare nel 2019: cessare l’usurpazione, governo di transizione e libere elezioni. Oggi invece insiste su cinque nuove frasi: costruzione di un’unità più grande e migliore possibile, recupero della capacità di mobilitazione per aumentare la pressione interna, attenzione alla complessa emergenza umanitaria, rafforzamento dell’alleanza internazionale per aumentare la pressione esterna ed elezioni libere e giuste.
Come mai questo cambiamento? Il dittatore Nicolas Maduro è più forte che mai, mentre l’opposizione è indebolita, divisa e confusa. Nel mezzo, il popolo venezuelano tenta di sopravvivere tra la schiacciante crisi economica e il Covid, così come è stato rilevato dall’indagine del Centro Gumilla e della Rete Agroalimentaria del Venezuela: “La carenza di medicinali, il peggioramento dell’attenzione sanitaria, l’insorgenza di malattie che si credevano debellate, insieme alla pandemia di coronavirus, è una bomba a orologeria, che mette la popolazione in una situazione di maggiore vulnerabilità, aumentando il rischio di morte per numerose persone più povere del Paese”, si legge nel documento.
Proviamo, ora, a ricordare come siamo arrivati a questo punto. Da due anni il Venezuela si trova sotto il comando di due presidenti. Il primo è un usurpatore, Nicolás Maduro, che si è imposto per un secondo mandato il 20 maggio 2018, attraverso elezioni fraudolente (senza la partecipazione dell’opposizione e con un’astensione record del 64%), mantenendo sotto sequestro le istituzioni democratiche del Paese, anche con l’uso delle armi e della repressione politica.
Il secondo è Juan Guaidó, che nonostante sia riconosciuto da cinquanta paesi come presidente ad interim, secondo quanto stabilito dall’articolo 233 della Costituzione venezuelana (che afferma che, in assenza del Presidente, il presidente dell’Assemblea nazionale deve assumere il potere per procedere alla convocazione di elezioni democratiche), non è riuscito a concretizzare la sua promessa di “cessazione dell’usurpazione” nel Paese sudamericano.
In tutto ciò, l’Assemblea nazionale eletta nel 2015, ancora sotto la guida di Guaidó, doveva concludere il suo mandato lo scorso 5 gennaio 2021. Tuttavia, considerando che questo Parlamento rappresentava l’ultima spiaggia democratica per riuscire ad avere una transizione democratica in Venezuela, i deputati si sono incontrati virtualmente il 26 dicembre 2020, attraverso la Commissione Delegata (composta dai rappresentanti delle diverse Commissioni del potere legislativo), per l’approvazione della riforma della Legge dello Statuto di Transizione, che approva la proroga del periodo dell’AN e di conseguenza del mandato interino.
Ora il Congresso di Guaidó funzionerà “fino a quando non si terranno elezioni presidenziali e parlamentari libere, eque e verificabili nel 2021, non si verifichi un evento politico eccezionale nel 2021, o anche per un periodo parlamentare annuale aggiuntivo a partire dal 5 gennaio 2021”, si legge nel documento. Questo meccanismo non è contemplato nella Costituzione venezuelana; tuttavia, i parlamentari in uscita hanno cercato di legittimare la decisione attraverso un plebiscito, che ha avuto il sostegno di 6,4 milioni di venezuelani che hanno approvato il progetto di proroga del suo mandato ( di 20.710.421 elettori, quindi appena il 30,9%).
Al di là delle svolte legali e degli atti simbolici, la verità è che il regime mantiene in ostaggio il popolo venezuelano: in Venezuela non ci sono più spazi politici da conquistare o difendere attraverso meccanismi democratici. Come previsto dal dittatore, il 5 gennaio si è insediato un nuovo Parlamento chavista, con 256 dei 277 seggi, presumibilmente eletto il 6 dicembre. Dico “presumibilmente” perché tali elezioni legislative sono state indette da un presidente illegittimo e non riconosciuto come tale dalla comunità internazionale (non essendo stato eletto in libere elezioni), sono state organizzate da un Consiglio elettorale nazionale sotto il completo controllo del regime e, ancora una volta, si sono svolte senza la presenza dell’opposizione democratica.
La Corte Suprema di Giustizia del Venezuela, in linea filogovernativa, ha dichiarato nullo (il 30/12/2020) il documento approvato dal Parlamento di opposizione per prorogarne il mandato. La Camera costituzionale della Corte ha respinto come “irrilevante” qualsiasi azione del parlamento presieduto da Juan Guaidó, per “perpetuare, prolungare, continuare o estendere” il periodo legislativo, che si è concluso il 4 gennaio.
La verità è che Maduro ha smantellato la democrazia venezuelana, in primo luogo selezionando i membri chavisti della Corte Suprema (dicembre 2015) attraverso la maggioranza che aveva precedentemente in Parlamento. Questa Corte chavista ha bloccato ciascuna delle azioni dell’Assemblea Nazionale insediatasi a gennaio 2016 e il 28 marzo 2017 ha assunto i pieni poteri del Parlamento e ha oltraggiato i deputati, privandoli anche della loro immunità (sentenze 155 e 156).
Sarebbe la stessa Corte che ha destituito la Procuratrice ribelle Luis Ortega Diaz per le sue denunce contro il dittatore, costringendola a fuggir; e che ha perseguitato e incarcerato i magistrati che erano stati eletti dal legittimo Parlamento di opposizione, a oggi in esilio. La spinta finale verso la deriva democratica è avvenuta con l’istituzione della cosiddetta Assemblea Costituente, creata su misura da Maduro, che ha nuovamente oltraggiato la Carta Costituzionale del Paese. Un parlamento parallelo che – dopo le ultime elezioni parlamentari – è stato smontato senza realizzare il suo presunto obiettivo di redigere una nuova Magna Carta. La sua performance ha soltanto dato a Maduro più poteri.
Così il regime ha intrappolato il Venezuela, creando sistematicamente le proprie strutture di potere e portando il Paese a una situazione complessa, con due Corti supreme, due Procuratori, un’Assemblea Costituente su misura che poi inspiegabilmente è sparita, e ora anche due Parlamenti.
Inoltre, è opportuno ricordare che le Nazioni Unite hanno confermato che più di 5.000 venezuelani sono stati uccisi dalla politica di sterminio del regime; sono stati registrati 15.679 arresti per scopi politici e numerose torture dall’anno 2014 e, a oggi, ci sono 320 prigionieri politici e più di 9.000 persone sono sottoposte ancora a misure cautelari, secondo i dati dell’ONG “Foro Penal Venezolano”.
Una realtà che è stata costantemente denunciata dai vescovi venezuelani, che hanno chiesto a Nicolas Maduro “un atto di coraggio” affinché “un cambiamento radicale nella leadership politica” permetta di “fermare questo mare di sofferenza del popolo venezuelano”, si legge nell’Esortazione Pastorale pubblicata lo scorso 11 gennaio. Richieste che, al momento, non hanno avuto eco nemmeno presso Papa Francesco.
E nonostante Maduro abbia espulso l’ambasciatrice dell’UE, Isabel Brilhante Pedrosa, il capo della diplomazia europea Josep Borrell ha ancora il coraggio di dichiarare che “le elezioni potrebbero offrire una nuova opportunità per cercare un accordo tra il governo e l’opposizione” in Venezuela, riferendosi alle elezioni regionali che dovrebbero tenersi quest’ anno.
Ora ci si chiede: è possibile realizzare elezioni credibili nel contesto appena descritto? No! Serve un atto di coraggio non solo da parte della “leadership politica venezuelana” ma anche da parte della comunità internazionale, per mettere fine definitivamente alla sofferenza del popolo venezuelano.